I Disordini Cranio-Cervico-Mandibolari (DCCM) rappresentano un generico quadro di sofferenza muscolo scheletrica del territorio della testa e del collo. Le moderne conoscenze in ambito di fisiologia e fisio-patologia del sistema neuro muscolare hanno permesso di identificare meccanismi patogenetici assai costanti che rendono ragione di manifestazioni cliniche eterogenee e così diversamente giudicate dalla sfera affettiva-emozionale propria di ciascuno. Ogni qual volta vi sia un danno all'apparato si assiste a fenomeni di adattamento soprattutto a carico del sistema neuromuscolare che registra e adatta continuamente la posizione della mandibolare al fine di garantire un combaciamento dentale stabile.
Solo in parte invece le articolazioni della mandibola possono compensare la malposizione mandibolare mentre pressoché nulla è la capacità adattativa dei denti che pertanto risultano essere determinanti nell’instaurare quei fenomeni di disordine che coinvolgono l’intero apparato stomatognatico e spesso anche i territori contigui.
L’esordio e l’evoluzione delle manifestazioni cliniche possono interessare sia le articolazioni della mandibola che il complesso sistema neuromuscolare. Si possono così realizzare segni esclusivi di disfunzione articolare che possono portare all’instaurarsi di un danno anatomico delle strutture articolari stesse e/o manifestazioni dolorose riferite per lo più al territorio della testa e del collo. Tali espressioni rappresentano una risposta individuale e territoriale intesa come perdita delle proprie capacità di adattamento all’insulto subito.
Secondo uno studio statistico condotto nel Servizio di Disordini Cranio-Cervico-Mandibolari del Dipartimento di Odontostomatologia dell’Università degli Studi di Firenze su un campione di oltre 700 pazienti i disturbi prevalentemente articolari, associati o meno ad algie miogene, rappresentano una porzione solo di poco inferiore rispetto ai pazienti che lamentano come sintomo prevalente quello doloroso di intensità tale da condizionare la qualità della vita. Proprio sull’importanza di questi aspetti e sull’influenza che determinano sul piano di trattamento è stata proposta una classificazione clinica che definisce:
- Disordine di I grado la condizione priva di sintomatologia, ma ricca invece di segni obiettivi. Un Disordine di I grado è l’espressione di una condizione di precario equilibrio, senza sofferenza muscolo-scheletrica; è una situazione clinica assai diffusa, uno stato transitorio che può essere turbato da cause acute o dall’esaurirsi della capacità di accomodamento muscolare. In tal caso subentra la condizione di:
- Disordine di II grado caratterizzata dalla presenza di sintomi che altro non sono che l’espressione, nel territorio della testa e del collo, della Sindrome Dolorosa miofasciale.
- Disordine di III grado nel caso della contemporanea presenza di danni articolari temporo-mandibolari che complicano maggiormente i quadri clinici.
Il dolore, che è il sintomo principe di tali disordini, coinvolge la muscolatura scheletrica, le sue fasce ed aponeurosi, si instaura preferibilmente nei muscoli a maggior impegno posturale, sia per cause che agiscono cronicamente (come l’impegno ad un adattamento posturale forzato), sia per cause traumatiche acute (come, ad esempio il “colpo di frusta”).
La sede più tipica delle manifestazioni dolorose è riferita a livello della testa e del collo con espressioni ed acuità diverse che rappresentano le varie espressioni delle cefalee e cervicalgie tensive. La corretta diagnosi di patologia miofasciale e l’indirizzo terapeutico conseguente devono essere raggiunti partendo da un attenta anamnesi e da un esame clinico che valuti il grado di compromissione articolare e la sofferenza muscolare. Se da un lato la palpazione dei muscoli masticatori e cervicali può indicare la presenza di punti trigger miofasciali (Figura 1) responsabili di quelle manifestazioni dolorose e vegetative tipiche per ciascun ventre muscolare, la contemporanea presenza di una componente patologica a carico delle articolazioni può essere messa in evidenza dalla presenza di vibrazioni di varia intensità e frequenza a sede temporo-mandibolare e/o da importanti limitazioni nei movimenti mandibolari.
Momento fondamentale della prima visita è l’individuazione di eventuali click articolari percepibili al tatto, che si presentano in una determinata fase dell’apertura orale o di rumori sordi di sfregamento dei capi ossei in contatto che si realizzano per graduale usura del disco articolare stesso. Tali evenienze possono essere analizzate mediante esame elettrosonografico in grado di misurarne sia l’entità e l’esatto momento in cui si registrano che la qualità delle frequenze di cui sono composti. L’incoordinazione disco-condilare con ricattura precoce infatti rappresenta una condizione disfunzionale, assai facilmente recuperabile, con un danno anatomico dei tessuti spesso modesto e privo di sintomatologia dolorosa diretta delle articolazioni tanto da rendere questo evento, soprattutto se unico, esordio di un disordine completamente ignorato o comunque sottovalutato.
Ogni qual volta si ravvedano segni di sofferenza muscolo-scheletrica con lievi alterazioni della funzione articolare l’indirizzo terapeutico seguito deve essere dunque rivolto al recupero della posizione fisiologica di occlusione e alla ricerca dell’equilibrio muscolare perso. La terapia ortopedica di riposizionamento mandibolare viene determinata dall’esito di esami elettromiografici e kinesiografici che associati alla stimolazione elettrica di superficie (TENS) permettono di ritrovare la posizione definita di miocentrica e di mantenerla con un dispositivo provvisorio chiamato ortotico (Figura 2) in attesa di stabilizzare la nuova posizione di occlusione a sintomatologia regredita.
Nella nostra esperienza diverso è il caso della lussazione interna con ricattura tardiva del disco da parte del condilo o addirittura la completa perdita dei rapporti anatomici condilo-discali che può ulteriormente aggravarsi con l’usura delle superfici ossee o con la sovrapposizione di fenomeni infiammatori acuti. In tutti questi casi la grave alterazione articolare determina un importante ostacolo ai normali movimenti mandibolari e dunque rende del tutto vana e inefficace la ricerca della posizione fisiologica di occlusione: al riequilibrio muscolare non segue un miglioramento determinante della funzione articolare.
L’approccio di tutti questi casi deve quindi essere mirato al più importante recupero della funzione articolare garantito dall’accoppiamento del complesso condilo-discale. La nostra Scuola a riguardo propone di utilizzare un dispositivo intraorale di riposizionamento mandibolare in ipercorrezzione. Il compito del riposizionatore mandibolare è quello di consentire un movimento di apertura e chiusura in una condizione di protrusione mandibolare tale da assicurare il recupero del disco prima dell’inizio del movimento di apertura stessa. Questa condizione si realizza quasi sempre determinando un contatto diretto dei denti anteriori con rapporto “testa-testa”. In tali condizioni il riposizionatore colma il vuoto occlusale che si viene a determinare a carico dei denti latero-posteriori. Un tale dispositivo se impiegato perennemente quindi anche durante i pasti permette di ritrovare fin dalle prime settimane il miglioramento roto-traslatorio del condilo e nei mesi successivi di favorire quei processi di adattamento dei tessuti molli e di rimodellamento dei capi ossei. Si tratta di fenomeni che anche in casi limite di completa usura del disco possono portare alla formazione di un cuscinetto fibroso interposto tra i capi ossei in grado di svolgere esaurientemente le funzioni del disco scomparso.
L’avvenuto recupero del danno anatomico articolare viene messo facilmente in evidenza con la documentabile riduzione dei rumori prima misurati e dalla semplice constatazione del rimodellamento dei tessuti duri all’immagine radiografica e con evidente miglioramento di tutti i parametri dei movimenti mandibolari sia abituali che “border-line”.
Solo dopo la guarigione clinica delle problematiche articolari si potrà procedere alla realizzazione di un ortotico individuale.
Per concludere si può affermare che il nostro atteggiamento diversificato nella terapia dei DCM puri o associati a sofferenze articolari è il frutto di una esperienza accumulata nel corso di molti anni a spese talvolta di taluni insuccessi. Infatti l’impostazione di pensiero della nostra Scuola è decisamente neuromuscolare nel senso che le problematiche occlusali riconoscono negli squilibri e nelle sofferenze muscolari la loro genesi. Tuttavia nel corso del tempo abbiamo dovuto constatare che quando le conseguenze del maladattamento occlusale recano danni anatomici alle strutture articolari la ricerca dell’occlusione neuromuscolare con in procedimenti, le tecniche e le apparecchiatura abitualmente impiegate risultano del tutto vane. In altri termini se non vi è libertà di movimento articolare per una grave incoordinazione disco-condilare o addirittura per un locking il primo obiettivo clinico che ci dobbiamo porre è proprio la risoluzione di questo impedimento.
La validità di questa linea di condotta ci è stata comprovata in pressoché tutti i casi affrontati ed è con soddisfazione che abbiamo notato che un periodo di tempo non necessariamente prolungato (3-5 mesi) è spesso sufficiente a favorire la realizzazione di due fenomeni significativi: la scomparsa dell’incoordinazione e dei sintomi correlati anche senza la presenza in bocca del dispositivo ortopedico ed inoltre la perdita dei rapporti occlusali primitivi, segno indubbio (verificabile con esami radiologici) di una rimodellazione e riadattamento di tutti i tessuti articolari. Motivi di prudenza ci inducono a mantenere il riposizionatore, che oltretutto risulta gradito al paziente, per un tempo più prolungato e ciò per evitare il pericolo di recidive. Alla fine del periodo di terapia ortopedica il divario occlusale latero posteriore che ora si presenta dà chiaramente le indicazioni per le modifiche ortodontiche e/o protesiche che si dovranno porre in atto per stabilizzare la nuova occlusione “terapeutica”.
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